22/04/2021
ATTUALITÀ
di Viola Lala
Dal Benin al Ghana fino alla Nigeria. E poi ancora India, Costa d’Avorio, Liberia. Perfino la Cina è invasa dall’«e-waste», i rifiuti elettronici prodotti dai Paesi più industrializzati. La rete coinvolta in queste attività di esportazione clandestina si appoggia spesso sulla mafia nigeriana e su migranti ghanesi che vivono in Europa.
Le spedizioni illegali di «rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche» (RAEE) continuano ad aumentare: dai 45,2 milioni di tonnellate del 2014 ai 48,8 milioni di tonnellate del 2016, fino ai 57,1 milioni di tonnellate del 2021. I numeri sono delle Nazioni Unite.
L’incremento è stato del 26,3% in appena 7 anni. E molta di questa spazzatura, così pericolosa per la salute delle persone che ne vengono a contatto, proviene proprio dall’Europa, Italia inclusa.
Si tratta di esportazioni illegali camuffate da spedizioni di apparecchiature usate per aggirare le norme dell’Unione Europea sullo smaltimento di sostanze tra le quali anche mercurio, cadmio, piombo, cromo esavalente, bifenili policlorurati (PCB) ed altre sostanze che riducono lo strato di ozono e producono diossine.
Il materiale illegale viene non di rado spedito come donazione oppure viene nascosto all’interno di veicoli esportati per essere riutilizzati in Africa, con l’aiuto di una rete che si appoggia sulla mafia nigeriana e su migranti ghanesi che vivono in Europa e avviano piccoli business familiari su questi traffici.
I porti di Amsterdam e di Anversa —ma anche quelli del Regno Unito— sono quelli più utilizzati per far partire con destinazione l’Africa i rifiuti elettronici etichettati come merci, mentre in realtà si tratta di artefatti non operativi.
Certo la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti oltre frontiera dei rifiuti pericolosi e sulla loro eliminazione ha definito criminale questo traffico internazionale verso i Paesi in via di sviluppo, ma l’impianto normativo prevede un’eccezione: quella per i rifiuti elettronici che saranno riparati subito dopo l’arrivo.
E così anche i controlli diventano inutili: ai criminali basta spacciare l’e-waste come merce da riparare e il gioco è fatto. Eppure i materiali che compongono questi artefatti rappresentano un rischio significativo per la sicurezza e la salute dei lavoratori e dell'ambiente circostante.
Una volta a destinazione tutto questo materiale viene nella maggior parte dei casi bruciato dalle popolazioni autoctone per recuperarne i materiali attraverso la combustione della plastica che li riveste. Oppure sottoposto a lisciviazione con acido.
Pratiche che sono criminali perfino in Nigeria, dove una legge proibisce la combustione di cavi di plastica così come gli altri metodi utilizzati per recuperare metalli preziosi da dispositivi elettronici scartati.
Ma la legge non viene applicata ed i raccoglitori di spazzatura —tra cui moltissimi bambini— continuano ad esporsi tutti i giorni a tossine che causano problemi respiratori, infezioni agli occhi, dermatiti e perfino problemi di sviluppo neurologico e morte.
In Nigeria il punto nevralgico di smaltimento di questi rifiuti si trova a Lagos, la più grande città dell’Africa e la quarta al mondo per numero di abitanti, tenuto conto che il suo agglomerato urbano supera i 21 milioni di persone.
Qui i rifiuti privi di valore economico vengono spesso scaricati o bruciati, rilasciando inquinanti tra i quali metalli pesanti, diossine, furani e policlorobifenili riconosciuti come tossici sia per l’ambiente (aria, acqua e suolo) che per l’uomo.
Ogni anno in Nigeria vengono bruciate oltre 52 mila tonnellate di plastica bromurata, 4 mila tonnellate di piombo, 80 tonnellate di cadmio e 300 chili di mercurio.
Ma il vero inferno dell’e-waste si trova ad Agbogbloshie, un suburbio della città di Accra, capitale del Ghana, uno dei 10 luoghi più inquinati e più inquinanti al mondo.
L’area si estende per 1,6 ettari sulle sponde della Korle Lagoon ed è soprannominata «Sodoma e Gomorra» a causa delle difficili condizioni di vita e della criminalità dilagante.
Qui si lavora per 2 dollari al giorno ed i raccoglitori possono avere la certezza di contrarre tumori, infezioni polmonari o malattie cardiache. Ma non solo: i rifiuti vengono bruciati avvelenando l’aria in un’area a lungo raggio.
In Ghana, questo tipo di trattamento dei rifiuti ha conseguenze gravissime sulla catena alimentare con elevatissimi livelli di diossina e di bifenili policlorurati nelle uova in vendita nel mercato adiacente alla discarica.
In un solo uovo di gallina di Agbogbloshie è stato possibile comprovare la presenza di una quantità di diossine clorurate 220 volte maggiore rispetto alla quantità massima tollerabile ammessa dall’European Food Safety Authority e valori quadrupli di bifenili policlorurati.
Qui i cosiddetti «burner boys» lavorano con le mani e con il fuoco per estrarre metalli di valore dalle plastiche isolanti che vengono bruciate per recuperare cavi metallici e circuiti da telefonini, tablet, pc ed elettrodomestici provenienti dai ricchi Paesi dell’Unione Europea —soprattutto Italia, Spagna, Germania, Irlanda e Danimarca— e dal Regno Unito.
Altri ancora spaccano a martellate, servendosi spesso anche di pietre, monitor e touch screen per ricavare rame, oro, acciaio, ed alluminio.
Si stima che ad Agbogbloshie siano finiti finora circa 280 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, provenienti per l'85% dal Vecchio Continente attraverso circuiti per lo più illegali.
Fonti delle Nazioni Unite parlano del coinvolgimento anche di organizzazioni criminali, come la mafia nigeriana e perfino di quella romena, seppure vi siano ancora poche prove.
Nel frattempo i fumi neri della plastica incenerita continuano ad impregnare ininterrottamente —giorno e notte— l’aria di Agbogbloshie, causando aborti, morti neonatali e malattie congenite. E molti tra i «burner boys» emigrati ad Agbogbloshie per lavorare nell’indotto dell’e-waste si ammalano tanto gravemente da non fare più ritorno nei loro villaggi natali.
Ma anche l’India sta emergendo come uno dei maggiori importatori di rifiuti pericolosi al mondo, con una crescita a doppia cifra, così come il Pakistan e il Bangladesh. In questi ultimi casi, però, non è l’Europa a farla da padrona. Qui la maggior parte dei rifiuti provengono da Australia, Canada e Stati Uniti.
Migliora invece la situazione nel Sudest Asiatico ed in particolare in Indonesia, Malaysia e Filippine. Ma non in Cina dove, a Guiyu, nella provincia del Guangdong, operano ancora oggi circa 6 mila aziende a carattere familiare dedite allo smaltimento di artefatti elettronici per ricavarne oro, rame e piombo.
Anche qui la combustione della plastica, per oltre 700 tonnellate l’anno di computer ed altre apparecchiature elettroniche, ha prodotto effetti pericolosi, facendo riscontrare elevatissimi livelli di piombo nel sangue nell’80% dei bambini.
Eppure la città, che viene soprannominata il «cimitero mondiale dell’e-waste», continua ad attrare migranti vicini o lontani che siano, dando lavoro ad oltre 60 mila raccoglitori di rifiuti elettronici che possono verosimilmente guadagnare dai 4 ai 5 mila yuan mensili, insomma uno stipendio tra i 512 ed i 640 euro, molto più allettante rispetto ad un lavoro più urbano.
A passare ogni anno per Guiyu sono oltre 1,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici che hanno però un valore di recupero molto più alto rispetto a qualunque altro Paese: qui il riciclo dell’e-waste genera ricavi per 3,7 miliardi di yuan, pari a 473 milioni di euro.